«Curare un bambino autistico è come assistere alla nascita del pensiero» diceva la Tustin. …
Muti, distanti, insensibili a qualsiasi stimolo o richiamo, i bambini affetti da autismo vivono come se il mondo esterno, gli altri, non esistessero o ne fossero talmente impauriti da opporre una barriera impenetrabile a qualsiasi forma di intrusione.
A prima vista sembrano creature irraggiungibili, chiuse in un loro universo segreto, impenetrabile come una fortezza di cui abbiano gettato via la chiave. Muti, distanti, insensibili a qualsiasi stimolo o richiamo, i bambini autistici vivono come se il mondo esterno, gli altri, non esistessero. O ne fossero impauriti al punto da opporre la barriera di un invalicabile isolamento a qualsiasi forma di intrusione, riducendo la loro stessa vita a una non-esistenza basata sul diniego, il rifiuto. Non giocano, se non in modo meccanico, stereotipato, ripetitivo, come i movimenti che a volte scuotono il loro corpo.
Non parlano, se non per pronunciare versi o frasi incomprensibili. Non guardano negli occhi, ma evitano lo sguardo mantenendo una traiettoria visiva obliqua, periferica, che si perde in un punto lontano. Non esprimono emozioni, se non improvvisi scoppi di rabbia quando qualcosa sembra turbare lʼordine invisibile del loro universo modificandone i rituali.
Autismo di Anna Maria Battistini, Pubblicato su "Io donna" inserto del Corriere della Sera dell'11 Novembre 2006
Un universo apparentemente pietrificato, pervaso da un misterioso processo di glaciazione degli affetti e del pensiero, che riserva però straordinarie sorprese non appena si riesce a fare breccia nella barriera autistica. «Ho una bolla di gioia dentro di me», dice il piccolo David alla sua psicoterapeuta, mentre soffia stringendo le labbra proprio come per far uscire una bolla dʼaria, uscendo così anche dal gelido silenzio in cui fino allora si era ermeticamente chiuso. «Grazie per avermi liberato dalla prigione dellʼautismo» le scriverà più avanti, quando a 24 anni si laurea con lode in biochimica alla prestigiosa Cornell University di New York.
Il caso di David è uno dei tanti successi terapeutici dell'autismo, della psicoanalista inglese Frances Tustin, scomparsa a 82 ani, nel 1995, che ha dedicato la sua vita alla cura dei bambini autistici e allo studio di una malattia che costituisce tuttora un enigma anche alla luce delle recenti scoperte delle neuroscienze.
Delle possibili evoluzioni del suo pensiero e della sua tecnica terapeutica si è discusso nel recente convegno dal titolo Oltre le barriere autistiche tenuto a Venezia dal Frances Tustin Memorial Trust in collaborazione con il dipartimento di pediatria dellʼUniversità di Padova, al quale hanno partecipato studiosi di 24 paesi.
«Curare un bambino autistico è come assistere alla nascita del pensiero» diceva la Tustin che nel corso degli anni aveva modificato le sue teorie sulla natura di questa malattia, cercando di approfondire sempre di più la comprensione di ciò che avviene nel corpo e nella mente di un bambino autistico per poterlo avvicinare superando a poco a poco le sue barriere difensive. «Abbandonata lʼidea di regressione a uno stato di autismo primario ritenuto normale nel neonato, la Tustin collega questa sindrome al trauma della separazione, vissuta come un evento devastante, carico di angosce e terrori insostenibili a causa non solo di una eccessiva fusionalità con la madre ma di una predisposizione costituzionale che rende il bambino più fragile di altri, incapace di tollerare il normale alternarsi di presenza e assenza della figura materna» dice Chiara Cattelan, psicoanalista della Spi e neuropsichiatra infantile, allieva di Frances Tustin, che da 20 anni dirige il centro di diagnosi e cura dellʼautismo al dipartimento di pediatria dellʼuniversità di Padova.
«Il distacco fa così precipitare il bambino in un ”buco nero” - come ha detto un piccolo paziente - lasciandolo in preda a emozioni primordiali che sfuggono a ogni elaborazione simbolica impedendogli di trasformarle in pensiero. E dalle quali si difende con una sorta di congelamento emotivo».
In questa prospettiva acquistano un senso le incomprensibili ”stranezze” dei bambini autistici: come i movimenti meccanici, ripetitivi, detti ”stereotipie”, che riproducono sensazioni sempre uguali e proprio per questo rassicuranti, come tutti i rituali. O lʼuso di oggetti, generalmente duri - un mazzo di chiavi, una macchinina metallica - stretti in pugno come un baricentro al quale tenersi ancorati e dai quali è impossibile separarali. E acquista un senso anche la barriera del silenzio: unʼestrema difesa contro lʼangoscia di disgregarsi, di andare a pezzi nel contatto con gli altri che rende difficile applicare allʼautismo la ”cura della parola” elaborata da Freud.
Come rompere il ghiaccio? «Inizialmente è necessario adottare una tecnica diversa da quella tradizionale, basata non sul transfert e sullʼinterpretazione ma sulla condivisione dellʼ”area autistica” in cui vive il bambino, ricorrendo al gioco, alla fantasia, al disegno, alle storie per raggiungerlo.
E risvegliarlo trasmettendogli, insieme alla comprensione del suo dolore e della sua solitudine, un senso di fiducia, di speranza che lo aiuta ad aprirsi» dice la psicoanalista Dina Vallino, che attraverso lʼinfant observation (il metodo che consente di osservare dal vivo lo sviluppo della relazione madre-bambino dalla nascita ai due anni nel suo ambiente naturale, la casa) ha contribuito a modificare radicalmente lʼidea del neonato: non più un essere chiuso nel suo guscio autistico, ancora indifferenziato e confuso con la madre come si ipotizzava, ma già dotato di una ”intenzionalità” che lo induce lanciare i suoi primi messaggi di richiamo, entrando in relazione con gli altri.
«Lʼassenza di questi richiami attraverso i gesti, la mimica, lo sguardo» continua Dina Vallino «rivela la mancanza della percezione di sé come essere separato, capace di esprimere non solo bisogni istintivi, ma desideri, emozioni, lampi di pensiero già presente nei primissimi mesi di vita. E rappresenta il segnale di una possibile deriva autistica che si può prevenire e curare quanto più precocemente viene individuata, non solo sul piano psichico ma anche neurocerebrale».
Come auspicava la Tustin per affrontare il mistero dellʼautismo e delle sue origini ancora in gran parte sconosciute è essenziale un dialogo sempre più aperto con altre discipline, come la neuropsichiatria e le neuroscienze, cercando di distinguere le componenti biologiche da quelle psichiche nel complicato intreccio fra mente e cervello.
Diverso da qualsiasi altra malattia mentale, lʼautismo non è considerato una psicosi né una nevrosi, ma un disturbo dello sviluppo del pensiero e dellʼaffettività: «Uno stato della mente anomalo» spiega Cattelan «i cui segnali si manifestano verso i due, tre anni quando diventa più evidente lʼassenza del linguaggio e di qualsiasi altra forma di comunicazione visiva o gestuale che già accompagnava la crescita del bambino, oppure si assiste a una improvvisa perdita delle capacità acquisite».
A queste due forme di autismo, primario e secondario, se ne aggiungono altre, diversificate in base alla gravità dei sintomi che vanno dalla totale disabilità a forme più lievi come la sindrome di Asperger, caratterizzata da un buon funzionamento intellettivo ma da scarse capacità sociali: una costellazione così ampia che oggi si preferisce parlare di molti autismi, o Autistic spectrum disorders (ASD), disturbi dello spettro autistico, secondo la dizione americana.
A più di 60 anni da quando lo psichiatra americano Leo Kanner descrisse per la prima volta lʼautismo, anche per le neuroscienze restano più interrogativi che risposte su questa complessa malattia: non è ancora chiaro infatti se le anomalie riscontrate attraverso il brain imaging nel funzionamento dei meccanismi neuronali, la distribuzione della materia bianca e le fibre nervose che collegano le varie parti e la stessa dimensione del cervello, siano la causa o lʼeffetto dellʼautismo. Come non sono chiare le ragioni dellʼaumento di questa sindrome registrato nel mondo occidetale e in Giappone. In assenza di danni o lesioni cerebrali, anche il supposto ritardo mentale collegato allʼautismo appare come un mito da sfatare.
Dietro la barriera autistica si nasconde spesso unʼalta dose di creatività, come dimostrano lʼintelligenza e la sensibilità di cui danno prova molti bambini autistici in alcuni settori specifici, come la matematica, la musica, la pittura. E se esistono casi ad ”alto funzionamento intellettivo» che raggiungono un notevole successo professionale, come Temple Grandin, la biologa autrice di una commovente biografia (Pensare in immagini, Erickson), oggi vengono alla luce le capacità di autistici più gravi: come Sue Rabin, la studentessa americana che pur rappresentando lo stereotipo della persona ritardata ha scritto la sceneggiatura di un documentario che ha avuto la nomination allʼOscar, Autism is a world.
«Non esiste un autismo assoluto» afferma lo psichiatra e psicoanalista Salomon Resnik, autore di libri famosi come Psicosi e persona (Einaudi) che da 60 anni cura le malattie mentali più gravi. «Nessuno è completamente autistico, come nessuno è completamente psicotico o normale. Esiste una complessità molto variegata.
Per fare un pronostico dal punto di vista diagnostico è importante capire quanto rimane di sano in un paziente autistico che si chiude nel proprio mondo interiore per paura che il suo io fragile vada a pezzi nel contatto con gli altri». Secondo Resnik la tendenza autistica si ritrova non solo come sintomo secondario nella schizofrenia e in altre malattie mentali, ma anche come ”tratto” presente nelle persone normali. «È qualcosa che fa parte della natura umana, proprio come fa parte della natura animale o vegetale» dice. «Chi si occupa si scienze naturali sa che la tendenza autistica non è soltanto patologica: ci sono piante che quando ci si avvicina si richiudono su se stesse per proteggersi. Ed è proprio la presenza trasversale dellʼautismo in ogni aspetto della natura che ci può aiutare a capire il suo enigma, sapendo che anche nei casi di guarigione alcuni tratti autistici non scompaiono mai del tutto». Come il senso di estraniamento d cui parla Temple Grandin nella sua biografia, che la fa sentire come un «antropologo su Marte».